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Il vangelo nella discarica

 

 

Ci sono persone che quando si incontrano lasciano il segno. Persone che hanno una empatia, un coraggio, una carica umana rara che ci fanno interrogare anche sul senso della nostra vita.

Nella nostra attuale società dove tutto sembra perdere di valore morale per ridursi a mera questione di potere l'incontro con un uomo che ha lasciato tutto per dedicarsi anima e corpo agli ultimi fra gli ultimi dà speranza e una grandissima gioia.

Ci riferiamo a Daniele Moschetti. Un sacerdote missionario comboniano che dopo anni di volontariato in Mani Tese, nel 1988 lasciò il suo lavoro e la sua casa per cominciare un cammino di fede e di umanità tra i missionari comboniani. La sua vita si è spesa fino ad oggi soprattutto tra le più grandi baraccopoli di Nairobi, a Kibera e Korogocho. Dopo un periodo trascorso a Gerusalemme ora è in Italia in attesa di ripartire per il Sud Sudan, dove lo attende una  realtà altrettanto devastante.

L’incontro con il suo entusiasmo e la sua energia contaminante spronano a non avere paura di guardare la realtà per dare una mano ad abbattere le barriere dei pregiudizi e provare a realizzare il progetto di un mondo più equo.

Ho letto il suo libro “Il Vangelo nella discarica”. Lo consiglio a tutti perché come dice nella prefazione Gianluca Ferrara “credo che la letteratura abbia il compito fondamentale non solo di intrattenere il lettore, ma di denunciare ingiustizie, essere impulso al cambiamento. Libri come questo non serve leggerli se poi non si cambia, se non si muta il proprio stile di vita, se non si impara a rinunciare e a condividere. Questo libro ci insegna che la Chiesa non è solo quella monarchica che si rinchiude in palazzi lussuosi scrupolosamente attenta a bacchettare il comportamento sessuale degli uomini, ma è anche quella che si batte per la giustizia, che cammina con gli ultimi, gli stessi ultimi che Gesù frequentava”.

Concludo con le parole di Vittorio Andreoli (psichiatra e scrittore, non credente): “Ho letto questo libro e confesso che sono riuscito ad immaginare, come mai mi era capitato, Cristo. Cristo a Korogocho. Sono sicuro che là si sarebbe trovato bene, mentre avrebbe sofferto nei salotti del potere e della ricchezza. Avrebbe pianto più che nel Getsemani”.

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Il mercato di Alaba

 

 


"In viaggio da Addis Abeba verso Soddo, decidiamo di fermarci in uno dei mercati locali lungo la strada. Accostiamo e ci inoltriamo in una marea di esseri umani. Il primo impatto è piacevole: colori, visi, voci e movimento. Poi, il colore della nostra pelle desta curiosità ed ecco che, come il miele attira le api, veniamo circondati da un nugolo di persone, principalmente; ragazzi e bambini. Vogliono essere fotografati, chiedono birr, sorridono e accennano parole in inglese: you you you. La sensazione è di trovarsi in una giostra di colori e di sorrisi: il ragazzino pietoso che chiede in continuazione birr, la ragazza col velo di pizzo che si atteggia vanitosa cercando, con malcelata discrezione i nostri scatti, i due fidanzati che vogliono essere fotografati insieme e le venditrici di spezie che sorridono vergognose quando si accorgono della nostra attenzione verso di loro. Il conducente del carrettino che sprona il suo cavallo a trovare una via per proseguire in quel 'traffico umano'. A tratti il nostro proseguire diventa difficoltoso. Gli anziani del posto se ne accorgono e vengono a spostare i ragazzini curiosi prendendoli a male parole e allontanandoli. Ma a noi non importa, questo 'bagno di umanità' non ci disturba affatto. Quando ci capiterà ancora e soprattutto dove? Certamente non nelle nostre città dove la folla è altrettanto numerosa, ma ognuno cammina a testa bassa, col viso immusonito e nemmeno vede chi gli passa accanto. Ben venga dunque il folle e colorato mercato di Alaba!"

(Rosangela Caldari)

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Risultati del sondaggio sull’operato della nostra Associazione

Grazie ai tantissimi soci e amici che hanno partecipato al nostro sondaggio.

Nel presentare questi risultati vogliamo davvero ringraziare tutti per la partecipazione. Il supporto da parte vostra è stimolante e gratificante. E’ l’impulso per continuare sulla giusta strada. I progetti in via di realizzazione sono importanti ma li affrontiamo col coraggio e la ferma volontà perché al nostro fianco ci siete voi.

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. Gli eventi da noi organizzati sono un momento importante per raccogliere fondi, per socializzare e farci conoscere da nuovi amici.
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      Siete in gamba. Continuate così. Ma se possibile intensificate

. Ci segnali iniziative alle quali, secondo te, sarebbe interessante partecipare?

      Eventi musicali, concerti, coinvolgere ospedali o altri Enti nei limiti delle regole.

Prendiamo alla lettera i vostri suggerimenti e vi aspettiamo il 12 maggio alla Villa Arconati di Castellazzo per una serata di “Arte e Cultura per l’Africa”.
Ricordiamo che ci potrete trovare anche agli stand in occasione delle manifestazioni in programma a Bollate.
Tenete  d’occhio il nostro Sito sempre aggiornato!  Grazie di nuovo e a presto.

I volontari de Il Seme della Speranza o.n.l.u.s.

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Le solitudini di Istanbul

 

 

Una ragazza in minigonna parla sguaiatamente in un cellulare ultimo modello. Di fianco a lei, un anziano, infagottato dentro un vecchio completo dal colore indefinibile, cerca di vendere spillette con l'effige di Lenin. Alle loro spalle la sede del Partito dei lavoratori. Intorno i negozi dell'alta moda. Ragazzi con occhiali da sole, donne velate, uomini d'affari. Qui, a sud di piazza Taksim, la modernità fa a spallate con la decadenza lasciata dai fasti dell'Impero Bizantino e da quello Ottomano.

Qui a due passi da Gezi Parki, le anime della città si incontrano, senza toccarsi. Si annusano, si studiano. Solitudini sottili, lontane nel tempo, che gli orrori e le intolleranze contemporanee invece di sopire hanno riaccentuato. Verso Beyoğlu, verso il ponte di Galata, la gente passeggia fra innovazione e tradizione. Passeggia fra negozi di strumenti musicali, gatti che rovistano nell'immondizia, tacchi a spillo, profumi europei.

Istanbul non riesce a togliersi di dosso il peso del grande passato. I suoi quindici milioni di abitanti, sempre in aumento, pulsano e assorbono vecchio e nuovo. Bisanzio e Costantinopoli sono morte. Istanbul pulsa di vita millenaria. Gli edifici in legno sentono il peso degli anni. Scrostati e abbandonati, riutilizzati per farci lokante che vendono çay. Abbattuti, come sta accadendo a Tarlabaşi, esempio estremo e disumano di gentrificazione, malattia che colpisce spesso chi sta al timone di comando, utile a isolare comunità, distruggere legami, rendere l'uomo della strada una perfetta macchina di individualismo e miseria.

Caos, colori, gente che urla. Pescatori silenziosi. Traghetti che borbottano da una sponda all'altra del Bosforo. In un negozio di mercanzie indefinibili primeggia il volto severo e austero di Atatűrk. Il Padre dei turchi, colui che trasformò la nazione in moderna repubblica. Ancora oggi molti gli sono riconoscenti. Lo si festeggia a raki, lo si festeggia andando verso la modernità, con il fiato della religione e della tradizione sempre sul collo. A Santa Sofia fedeli e turisti si mischiano.

Sdraiati nel centro di quello che un tempo è stato il grandioso ippodromo di Costantino, si assorbe l'acustica maestosa del muezzin. Chiamano, invocano. Le preghiere del cielo mettono i brividi e una sorta di strana commozione laica: si ricorda il boato, si ricordano i corpi stesi a terra, la follia estremista. Si ricorda camminando veloci, senza guardarsi in giro, un passo davanti all'altro. Pensieri interiori. Le mura costruite da Teodosio II ancora emergono fra le case. La Moschea Blu si innalza verso un divino impalpabile. Il traffico è intenso sul ponte Boğaziçi, sospeso fra Europa e Asia.

Due continenti. Due culture. Due solitudini. Due facce della stessa medaglia.

(tratto da IBNBATTUTA - testo di Argun Tufan)

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Ora Terza

 

 

Era l’ora terza quando lo crocifissero

Da duemila anni quell’ora terza è ferma sul quadrante del tempo.

Da duemila anni lo abbiamo sotto gli occhi e sotto le dita: tela dipinta, argento legno o madreperla. Da quando siamo nati, come la luna, come la bandiera, come il cucchiaio o la ruota, quel triangolo è nei nostri sensi quotidiani, abita nel domestico bazar di tutti. E quando moriamo qualcuno, invisibile dietro la nebbia, ce lo appoggia sulla bocca, quella forma fredda e levigata è l’ultima cosa cui dedichiamo amore.

Egli è tranquillità, famigliarità - ormai - quasi ogni volta. E’ l’antico omino nudo che penzola in fondo al rosario; o lungo i viottoli del Tirolo, sotto il tettuccio di abete, si scolora alla pioggia e lo salutiamo con un sospiro tornando a deliziarci del paesaggio.

E’ diventato un oggetto. Abbiamo cercato di mineralizzarlo, lo facciamo patetico o prezioso, d’oro o di mollica di pane, per liberarci della sua agonia e morte di uomo. Più lo riproduciamo e più ci dimentichiamo di lui, di quell’ora terza che è rintoccata milioni di ore fa sulla collina con vera erba, vero sangue, veri minuti.

Il mondo torna alla pace che gli occorre. Egli aveva provato a farne un grande organo di cattedrale, aveva cavato musica da branchi di porci, da pani secchi, da sgualdrine e da morti; ma il mondo ha preferito tornare al silenzio delle sue colline... perchè non suoni più gli ha messo due chiodi nelle mani.

Posato sull’ultimo respiro l’omino si libera dal suo gelo, spezza l’argento, confida il mistero dell’ora terza.

(da Luigi Santucci “Volete andarvene anche voi?”)

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